VAN ROY DALI’
Dalì figlio giudicato dal padre
Nel 1939 affermai: quando il Rinascimento volle imitare la Grecia immortale, venne fuori Raffaello
In gres volle imitare Raffaello, e venne fuori In gres. Cezanne volle imitare Puossin, e venne fuori Cezanne. Dalì volle imitare Meisonnier, e venne fuori Dalì.
Da chi non vuole imitare nessuno non viene fuori nulla. Oggi posso dire: Van Roy vuole imitare solo Dalì, e verrà fuori Van Roy, per quanto egli sia già Dalì.
Salvador Dalì
Dalì oltre Dalì: Dal surrealismo all’arte virtuale
Nella pittura contemporanea la dinastia più nobile è quella dei due Dalì. Ma non è facile, per Josè Van Roy, essere il figlio di un genio che spicca, pressoché solitario ed a una altitudine vertiginosa, su tutta l’arte figurativa del Novecento.
Non è facile soprattutto perché egli ha ereditato dal padre una sorgente inesauribile di creatività, di intuizione, di pulizia cromatica, di anticonformismo, unitamente al gusto beffardo della sfida contro le roccaforti della mediocrità trionfante.
I due Dalì: un albero non si può certo tagliare le radici per raccontare di essere figlio di se stesso. Ma Josè, decollato come discepolo del padre, è uscito presto dall’alveo continuista per assurgere al rango di antagonista e di maestro. Al apri di Bruegel dei Velluti nei confronti di Bruegel il Vecchio, egli non ripudia e non imita. E’ un Dalì che va oltre Dalì: scalando spavaldamente altre pareti vergini che portano sulla medesima vetta.
Antonello Colli
I destini paralleli. Gala per Salvador. Barbara per Josè
LE DUE REGINE d e l l a d i n a s t i a D a l ì
Quasi come era accaduto a Don Chisciotte. Il nobile Hidalgo della Mancia espugnò il blasone della gloria imperitura grazie alla forza sublime distillata dall’amore per una sola Donna. Dulcinea del Toboso (che purtroppo non esisteva). Più fortunati sono stati, nel nostro secolo tumultuoso, altri due cavalieri spagnoli dell’ideale, padre e figlio: i pittori Salvador e Josè Van Roy Dalì. Entrambi hanno espugnato una posizione di vertice nell’arte grazie, soprattutto, allo stimolo ed alla linfa distillata attraverso un esaltante amore monogamico per le rispettive consorti ed ispiratrici, Gala e Barbara Dalì.
Gala, che è anche la madre di Josè, in realtà si chiamava Elena Diakanoff. Proveniva da una aristocratica famiglia di San Pietroburgo. Da bambina aveva giocato sulle ginocchia del già venerando Leone Tolstoj. Adolescente si era sposata con il famoso poeta surrealista Paul Eluard, da cui presto divorziava per amore di Salvador Dalì quando l’artista non era ancora celebre né ricco. Fu una passione ardente e globale che, nel corso dei decenni, non ha conosciuto un solo momento di pausa o di flessione. Per il magmatico Salvador, irrequieto cultore del goethiano “Ewigweibliche”, la bellissima Gala, in perenne rinnovamento, rappresentava “tutto il meglio di tutte le donne dell’universo”.
L’idillio durò, ininterrotto, fino alla conclusione della loro lunga vicenda terrena. Moglie ed amante, ispiratrice e Dea, Gala è stata anche la modella per innumerevoli capolavori di Dalì senior: “La Madonna di Port Lligat”, “Gala”, “Leda atomica”… Alcuni quadri del maestro catalano sono addirittura firmati “Gala/Dalì” quasi a significare la magica sinergia tra le due anime.
Non meno fecondo è stato il sodalizio d’amore tra Dalì junior con sua moglie Barbara, tuttora giovanissima malgrado i ventuno anni di matrimonio. Infatti i destini di Josè e di Barbara si sono saldati nel 1973. Ella è mediterranea, solare, di sangue portoghese e siciliano, depositaria di un fascino antitetico, e pari, a quello della suocera Gala. Ed ecco quanto scrive di lei Josè Van Roy Dalì : è “la mia Dea, il fiore del mio balcone, la rosa della mia vita. Barbara: miracolosamente mi ha scelto come suo giullare: E di questo io sono felice…”
Anche in questo l’analogia tra Dalì senior e Dalì junior è impressionante.
Paola Stefanucci
V A N R O Y D A L I ‘ E ‘ U N G E N I O ?
SIMBOLISMO NELLA SUA PITTURA
Quando si parla di creatività artistica, ovvero del Genio creativo, si usa un termine in un certo senso inesatto: l’uomo certamente non può creare perché tutto nel Cosmo è già creato. Il Genio, allora, è colui che attinge a livelli superiori, pur sempre insiti nel Cosmo, squarciando i veli (velo dia Maja) che offuscano i sensi dell’uomo comune.
I livelli più alti sono quelli che in realtà giacciono sepolti dentro ognuno di noi, nell’abisso insondabile dell’inconscio. Nietzsche individuò questo processo nella sua opera Nascita della tragedia, configurando la genialità umana nella sintesi tra Dionisio e Apollo. Dionisio è la discesa notturna, infera, orchica, lunare che il soggetto fa dentro di sé rinunciando alla mediazione della razionalità; è la discesa nell’Ade per recuperare i tesori di Pluto (Dio degli Inferi e della ricchezza).
Apollo è la qualità solare che permette di decodificare il tesoro dei simboli raccolti e di trasmetterli per mezzo della creazione artistica.
Artista è quindi colui che ha la capacità di scendere negli strati più profondi dell’inconscio e rappresentarli al pubblico che può percepirli tramite lo stesso processo irrazionale. L’Arte non è quindi spiegazione ma evocazione. Analizziamo allora, con occhio attento alla psicologia del profondo,………
JOSE’ VAN ROY DALI’
Che fatica essere figlio d’arte
“Ricordo che mio padre, quand’ero bambino, entrava in piena notte nella mia stana, mentre dormivo. Mi svegliavo di soprassalto perché mi sentivo tirare i piedi. Ed allora lo vedevo fissarmi con gli occhi spalancati, il viso illuminato da una fioca luce di candela. E mi ripeteva: “Io sono il demonio e le corna, invece di averle in testa, si sono trasformate nei miei baffi”. Sì, mio padre, Salvador Dalì, era veramente un uomo imprevedibile che spesso mi faceva degli scherzi tremendi”.
Se non è certamente facile essere “figlio d’arte”, deve essere ancora più arduo il fatto di portare il cognome di Dalì, volendo continuare a fare il pittore. E’ questo il caso, appunto, di Josè Van Roy Dalì, l’unico figlio (nato a Perpignan nel 1940) del geniale Salvador e della sua indimenticabile musa ispiratrice, Gala (il cui vero nome era Melena Deluviana Diakanoff). Van Roy è un nome d’arte, usato da Josè per distinguersi con il proprio “timbro” inconfondibile rispetto al cognome del padre. Anche lui porta un paio di baffi leggermente arcuati, sia pure più ridotti a paragone di quelli paterni. Piccolo di statura e un po’ rotondetto, il suo viso emana un’armonia interiore ben lontana dagli sguardi “assatanati” del celeberrimo Salvador.
“I miei genitori – racconta Van Roy Dalì – erano sempre in viaggio, mio padre era impegnatissimo.
Così io sono cresciuto con una famiglia italiana, ed in pratica stavo con i miei solo a Natale, in Spagna. Mi è sempre piaciuto dipingere, ma nel 1972, perfettamente consapevole della grandezza di mio padre, distrussi quasi tutti i quadri.
La fiducia in me stesso mi è stata restituita da quella che poi è diventata mia moglie, una donna straordinaria. E la mia ispirazione nasce a contatto con la natura.
Certo il fatto di portare un cognome così noto, reca anche indubbi vantaggi in termini di pubblicità e popolarità e Van Roy ne è ben consapevole. Ma ci tiene soprattutto a ricordare una cosa, riguardo a suo padre: “Salvador Dalì non era l’uomo così egocentrico e “folle” che tutti hanno descritto. Egli sapeva stupire coloro che in realtà desideravano essere stupiti. Ed era invece una persona molto semplice e diretta quando frequentava gente umile e sincera, come i pescatori spagnoli, ad esempio. Inoltre fu importantissimo il ruolo di mia mare che seppe ispirarlo con grande intensità. Io vorrei essere giudicato esclusivamente in base ai quadri che dipingo, ma comprendo perfettamente la curiosità della gente ed anch’io ne traggo alcuni vantaggi. Certo, il mio sogno è quello di poter creare una sorta di surrealismo totalmente personale. Ed ormai mi sento pronto per raggiungere tale, ambita meta”
Gabriele Simongini
ADRIANO BULDRINI
Adriano Buldrini dipinge frammenti di un pensiero che, liberato dalla materia, ne porta ancora il ricordo, mai la nostalgia o il rimpianto. Se mai il progetto di una memoria futura.
Nelle sue opere infatti ricorre una tematica più spirituale che filosofica da me definita con molta partecipazione: l’armonia degli opposti.
Il segno esatto, vibrante e perfetto, colloca nella luce più giusta volti, corpi, oggetti, elementi naturalistici. Ma non è una messa a fuoco come l’occhio attento delle macchine bensì è una visione d’aria. Aria come respiro delle emozioni, aria che si purifica e ascende verso un empireo.
Maria Pia Meschini
Una trentina di tele di grande interesse artistico e contenutistico. Questa non è pittura da “appendere al muro”, soltanto, questa è pittura da mediare, pensiero trasposto sulle tele che colpiscono per la particolarità dei soggetti rappresentati, oltre che per l’innegabile bravura dell’artefice. Difficile classificare l’opera di Buldrini, anche perché le classificazioni ripugnano sempre un po’ a chi scrive, parendo che finiscano con il togliere agli artisti qualcosa nell’ambito della loro libertà e felicità espressiva. I personaggi, rappresentati dal Buldrini, pare si muovano con più leggerezza nel loro contesto rappresentativo, poiché sono dotati di …ali, trasparenti, a volte appena accennate, ali spirituali, beninteso, che dovrebbero innalzarli al di sopra della materialità, aiutarli nella strada della spiritualità. Davanti alle tragedie di un mondo che va in pezzi.
Lucrezia Pongan
PARLA ADRIANO BULDRINI PITTORE-ISPIRATORE DEL VIDEO SCANDALO DI MASINI
Fiorentino, laureato in Belle Arti, è alla seconda esperienza. “A Marco dico grazie”
Fiorentino, laureato in Belle Arti con De Grada e Ghelli, ex ragazzo di bottega, Adriano Buldrini da Firenze è l’autore della copertina dell’ultimo Cd di Marco Masini, “Scimmie”. Da questa copertina è nata l’ispirazione del famoso -definito blasfemo, ma basterebbe bruttino-video dove una scimmia sta crocefissa. Adriano Buldrini è un ragazzo di trent’anni dall’aria mite e simpatica, la copertina del Cd non l’ha arricchito e neppure gli ha dato la fama che forse meriterebbe
Come nasce la copertina di un disco ?
“Ho dovuto ascoltare la musica: Ho letto la canzone Scimmie e ho visto subito quest’immagine che ho riprodotto con i colori. Devo dire che ho avuto un shock, perché in questo lavoro Masini è straordinario, talmente diverso da come lo ricordavo. Ha cambiato tutto e condivido il suo pensiero: recuperare un sano istinto, un “no” ai problemi; la ricerca dell’astratto!
Le i cosa pretende di dare col suo lavoro?
“Niente, per carità. Non voglio neppure dire cose precise, cerco soltanto di nutrire una parte interiore di me, di noi. Ho scelto una ricerca di tipo spirituale, non so neppure io come definirmi. E non mi interessa neppure. Ma una cosa è certa: non pretendo niente”
Intervista di Titti Giuliani Foti
PATTY PRAVO LA MUSA VAL BENE UNA MOSTRA
Patti Pravo ha detto che si farà viva tra una session di registrazione e l’altra del nuovo album con Vasco Rossi. Ma non per vie ufficili. Alla mostra Come un angelo da collezione (il titolo è tratto dalla canzone Angelus scritta per la cantante veneziana da Ivano Fossati), che si inaugurerà a Villa Caruso di Lastra a Signa,sabato 25 marzo alle 15,30, ci andrà come una visitatrice qualunque, un po’ per celia un po’ per timore di tanto omaggio, perché alle pareti ci sarà lei.
Adriano Buldrini ha ideato un trittico (Non c’è sentimento che non sappia desiderare) dal sapore
preraffaellita in cui una bionda e floreale Pravo è rivolta verso un peccaminoso cespuglio di fragole e ben nascoste-foglie di marijuana
ERNESTO SOLFERINO
ICONE PROFANE DI SOLFERINO
Anno Mille, si è detto per le icone, Anno Duemila per l’Iperrealismo. Nelle tele di Solferino si crea un “effetto voragine” dal quale è difficile uscire senza aver “visitato”, con l’artista, questi mille anni d’Arte. E’ un continuum di citazioni, è un rivedere al tempo presente segnali e cromie del “tempo dell’uomo”, dagli altri concettuale del medioevo, alle strutture architettoniche del Settecento, rivisitare in chiave allegorica dall’artista, sino ai fasti tecnologici dell’Iperrealismo contemporaneo “L’effetto voragine” avvolge il fruitore di queste
operazioni in una sorta di conferma e di annullamento dei valori storici: “Niente deve rimanere immutato”, sembra essere il grido dell’autore nel momento in cui compie la sua
azione storicizzante. Prendiamo le icone, per esempio: Sono l’esempio più solare della visitazione che Solforino compie con la macchina del tempo. Egli si immerge nella cultura artistica del medioevo russo e raccoglie da questo terreno la laconicità linguistica e la densità di contenuto. Attenzione: l’arte iconografica non nasce, autoctona, nelle lande gelide e sterminate della Russia cristiana. Le prime icone giunte col Cristianesimo (988) sono bizantine. I primi Iconografi erano greci. Icone greche, provenienti Da paesi slavi meridionali, dai monasteri Dell’Athos, furono introdotte in Russia sino XVII secolo. Quindi l’iconologia russa è Diretta derivazione di quella greca, da cui ha Mutato il senso lirico, l’espressività contenuta Delle figure, la bellezza delle superfici vivaci. Ebbene, il terreno di cultura cui si è formato Ernesto Solferino è appunto, quello greco. Non Solo perché la Grecia rappresenta nella storia Dell’arte un momento cardine, ma in quanto L’aria respirata da Solforino, per puro atto latitudinale, è greca. Lo spirito greco e quello cristiano si sono incontrati, si sono sfidati e si sono trasfusi per “spiritualizzare la materia”. L’esaltazione della spiritualità, tipica della cultura ellenistica e la glorificazione della materia, tipica dell’ebraismo, hanno preparato l’iconologia. E’ la storia che parla. Ebbene, in questa visitazione dell’immagine che Solforino compie, non vi sono difficoltà a rilevare il richiamo ad un estetismo rarefatto, in chiave “moderna”, dunque scevra dagli obblighi del credere, anzi con tutt’altro impegno: quello di rendere finalmente chiara, “fotografica” si direbbe, la connotazione somatica, di presentare il volto femminile, a cui il pittore dedica moltissimo del suo tempo, ma finalmente un volto femminile “osteso” in tutta la sua dolcezza reale, in cui lievissime lineazioni prendono lentamente forma e si illuminano di luce propria. Egli rifiuta e “dissacra” i canoni estetici e simbologici, lasciando che il centro dell’immagine sia lasciato integro alla levità compositiva femminile, fomentando così nel volto ottenuto una bellezza terrena e a volte terrestre, pur restando il tema centrale, come nella iconologia sacra, “la luce”. E la luce è l’oro che Solferino largamente usa. E’ il segno della dimensione lirica in cui le sembianze femminili vanno a levitare. Dunque, la donna come luce dell’uomo; afflato di una visione toccante e toccata, non eterea e misteriosa come in una “Madre di Odigitria”, ma donna, che ancora prima di essere “donna”, è madonna, cioè essere a cui dedicare le mille attenzioni espressive che sono nelle icone solferiniane. Le madonne di Solferino, infatti, conservano questa purezza Icastica, ma hanno nello sguardo e nel volto i segni tutti dei mille anni di evoluzione del ruolo femminile. Solferino veste “le dolci sembianze” con panneggi morbidissimi, quasi che a cassetta dell’infernale veicolo temporale egli abbia potuto visitare le botteghe dei pre-raffaelliti e ne abbia potuto carpire le immagini, come in un filmino. Egli, il visitatore, veste e spoglia i corpi femminili, ora celebrandone il trionfo, ora nascondendone tra i morbidi panneggi la consistenza. Non c’è trasfigurazione nelle icone laiche di Solferino.La donna /madonna deve rimanere reale, anzi, iperreale. Deve conoscere, quasi come in una conoscenza biblica, totale ed aperta, a quale vita si affaccia guardando tutti noi, gli analisti, della tela. Deve sapere quali idee si affastellano nella mente del fruitore, a fronte di uno sguardo così fisico. A quale epoca esse vogliono sopravvivere? Sono, come vuole l’autore, finalmente la rappresentazione di una realtà fisica, oppure, ancora una volta sono lo specchio di una verità “rivelata” ad uso questo volta non sacrale ma teatralmente profano?
Donat Conenna
GINO BAGLIERI
Sono nato a Lentini (SR) nel lontano 1946 il 24 marzo sotto il segno dell’Ariete. Mia madre il suo travaglio nel partorirmi lo consumò in una camera d’ospedale (Lentini). Lei è di Francofonte (località delle arance) e mio padre di Comiso (la Città di S. Fiume, di G. Bufalino, del Magliocco e del cantante S. Adamo). Mia madre dimessa dall’ospedale si stabilì nella città di Comiso in Via Roma 19 dove vissi i miei primi 10 anni per poi trasferirmi nella vicina città di Vittoria (città delle serre e dei fiori). Ho iniziato gli studi nella città di Comiso e li ho terminati con il diploma di maestro d’arte nella scuola statale della stessa città. Ho iniziato il viaggio con le prime collettive e personali nella pittura e con concorsi di poesie e canzoni.
Ho iniziato il viaggio con le prime collettive e personali nella pittura e con concorsi di poesie e canzoni.
Attualmente vivo e lavoro nella città di Vittoria dove ho lo studio dì pittore e dirigo una casa albergo per anziani, in cui lavoro tutti i giorni e in tutte le ore.
Espongo per la prima volta in una collettiva a Faenza nel 1960, appena quattordicenne, vincendo il terzo premio nel concorso di ceramica; l’opera è esposta nel Museo della ceramica di Faenza.
Nel 1968, a Francofonte (SR), vinco il primo premio per la pittura.
A causa di gravi problemi sono stato costretto ad abbandonare la mia passione artistica che ripresi nel 1980 con maggiore determinazione. Ricomincio ad esporre le mie opere nel 1981, in una mostra di gruppo, parteciperò in seguito a varie esposizioni in diverse città italiane e straniere, riscotendo innumerevoli riconoscimenti e consensi, e incontrando i favori di collezionisti e critici, uomini di cultura e artisti.
Gino Baglieri
Gino Baglieri è indubbiamente un pittore della realtà. Ma non perché la sua pittura voglia competere con la natura e passivamen-te imitare e rappresentare la realtà delle cose così come sono e appaiono, bensì perché cerca di cogliere del reale quegli aspetti che dentro gli si imprimono e, amalgamandosi con lo stato d’animo, con la qualità e l’intensità dell’adesione psichica, si trasformano in masse cromatiche, in forme di colore, in “figure” dell’emozione oltre che del mondo oggettivo. Il realismo di Baglieri è, piuttosto che descrizione e racconto, lettura psicologica e sintesi emozionale e partecipativa, dove la qualità delle cromie, accese ma leggere, attesta una visione introspettiva e di risonanza sensitiva più che di proiezione di prensilità verso l’esterno… Sempre meno egli indugia nella definizione formale della rappresentazione, privilegiando il corpo cromatico come luogo maggiormente espressivo, non tanto – o non soltanto – materia del dipingere, del rappresentare, ma esso stesso contenuto, clima, atmosfera, forma del sentire, dell’emozione esistenziale. È questo rapporto che, a mio avviso, qualifica professionalmente il pittore autentico, poiché il colore non è più semplicemente strumento, ma materia e sostanza plasmabile dell’idea e del sentimento.
Nelle campiture e negli andamenti cromatici Baglieri trascrive l’intensità della propria consapevolezza di vita come evento che nasce dai sensi della realtà, dal corpo, dalla “natura naturata”, e conferma l’intel-letto, provocandone e promuovendone le capacità di elaborazione creativa.